Le sento parlottare da lontano e una frase scandita a voce più alta mi arriva nitida:
“L’ape regina è quella con la corona in testa!”
Sorrido. Che pensiero puro e bello, da bambino.
E subito penso all’ape Magà e all’ape Maya. Figlie principesse di api regine con la corona, sfigatissime come tutte le protagoniste dei cartoni animati che vedevamo noi bimbe negli anni ’80.
Interrompono i miei pensieri avanzando verso di me, insieme, con passo deciso e urgente. Due bimbe di sette anni, appena uscite dalla seconda elementare, in un pomeriggio di luglio all’ombra di un giardino di aranci.
Si alternano nelle domande con un’espressione seria sul viso, come di chi sta affrontando un dilemma complesso:
“Maestra, ma l’ape regina come fa? Se l’attacca in testa la corona? Non le dà fastidio quando vola? E se poi la perde?”
Bimbe mie, vorrei essere nel vostro tempo, alle prese con pensieri belli come i vostri. Ma, tristemente, rispondo da adulta e subito dopo me ne vergogno: non sono stata all’altezza del vostro pensiero magico e della vostra curiosità.
Sarebbe stato bello rispondere che l’ape regina ha uno stuolo di artigiani al suo servizio che realizzano l’oro più leggero e prezioso per la sua corona. E che lei è furba, perché usa uno scotch gigante e trasparente che le blocca la corona sulla testa e che solo alla sera perde aderenza, così lei può togliersela quando va a dormire.
Peccato.
Ho risposto che è più grande delle altre api e non ha veramente la corona. Ho evitato in tempo di fare riferimenti alla riproduzione, censurandomi silenziosamente, ma mi sono sentita lo stesso fuori luogo, come se avessi sfatato il mito di Babbo Natale.
E poi non sono veramente una maestra, bimbe. A dirla tutta – senza volervi sconvolgere troppo, visto che ho già distrutto il mito dell’ape regina – i veri maestri è difficile incontrarli.
Io in realtà sono un mediatore familiare. (Per gli adulti che si illudono che mettere il genere alle parole metta in pari il mondo, sono una mediatrice. Ma io, che non mi illudo, preferisco dire che sono un mediatore.)
Mi guardano, sempre più perplesse. “Maestra, ma è un lavoro?”
Sì, è un lavoro e non sono maestra.
“Vabbè. Non l’ho mai sentito. E che cosa fa un Medi..attore?”
Sorrido di nuovo.
(Medi-Attore è una parola che definisce benissimo il mio lavoro: la vita è teatro e nella stanza di mediazione c’è tantissima vita. Quindi, sono assolutamente un MEDI-ATTORE!)
Lo so che non lo conoscete, neanche gli adulti ne sanno molto di più, in effetti.
Il mediatore ascolta le persone quando non sono tanto felici: prova a capire cosa è successo e come si sentono. E spesso si occupa delle famiglie. Perché si è felici o infelici insieme, e le persone che non sono felici non si parlano più. Il mediatore li aiuta perché, parlando con lui, piano piano ricominciano a parlare anche tra loro.
Fare il mediatore significa parlare con adulti che hanno dimenticato di essere adulti. A volte succede, ai grandi. Capita perché, quando cuore e testa sono preda di emozioni molto profonde e intense, si smette di essere grandi. Il mediatore, con pazienza, li aiuta a ritornare nuovamente al loro posto nel mondo, soprattutto perché, a volte, ci sono dei bimbi veri in famiglia che, temporaneamente, per aiutare i grandi, diventano dei piccoli adulti.
Mi guardano con gli occhioni spalancati: “Ma com’è possibile? È una catr.. una catrastr…uff, è una CATRASTROFE!!”
Bimbe lo so, è una catastrofe davvero. A volte il mondo dei grandi è un po’ complicato.
Per farla semplice, il mediatore aiuta le persone a mettere in ordine e, così facendo, ciascuno ritrova il suo posto.
Annuiscono e ridono, dicendo: “Il mediattore è come la signora delle pulizie! Che prima non trovavo niente e dopo ogni cosa è al suo posto!”
Eh, sì… Diciamo così, bimbe belle.
Le metafore aiutano sempre, anche se non sono perfette. Se dovessi spiegare a un adulto cosa fa il mediatore, userei una metafora anche io. Perché i bambini capiscono subito tutto, mentre i grandi hanno sovrastrutture enormi e non basta usare un linguaggio semplice, ci vuole una metafora.