Il sentimento che più ci rappresenta ora è la stanchezza. Lo sento, lo vedo e ne ho la riprova ogni volta che ne parlo con qualcuno. Non ce la facciamo più. Sì, è passato quasi un anno; ci sentiamo dei sopravvissuti e ci facciamo coraggio col pensiero che il peggio è passato. Ma sono pensieri e parole a cui non crediamo fino in fondo. Lo diciamo perché dicendolo ci rassicuriamo, ma non basta. Il fatto è che siamo ancora in un abisso fatto di preoccupazione, ansia e rabbia che si sposta, giorno per giorno, dalla questione sanitaria, alla politica nazionale, all’economia mondiale, per poi arrivare a ciò che ci tocca più da vicino: le quotidiane battaglie per la spesa, la coda alla posta, in banca, il medico, la scuola dei bambini, i problemi dei nostri ragazzi, degli anziani – problemi che questa fase di sospensione ha amplificato tanto. Sì, perché non sono state sospese solo le nostre consuetudini e tanti servizi essenziali che davamo per scontati, ma anche qualcosa di così profondo che appartiene all’istinto, un nostro prezioso codice di riconoscimento che rende gli altri esseri umani intorno a noi il nostro rifugio, la nostra casa: gli abbracci, i baci, le parole sussurrate all’orecchio, i giochi a stretto contatto, il ballare insieme; i balli! la musica! e tutto quello che ci faceva perdere nei sogni: i concerti, gli spettacoli teatrali, il cinema, gli eventi, la cultura… il virus ha sospeso la parte più istintiva della nostra vita e tutte le mille forme di cultura che alimentano l’anima e i nostri sogni. Pesa agli adulti, pesa ancora di più ai bambini e agli anziani.